Era una sera d’estate, a Manerba sul Garda.
La piazza piena, la luce calda dei lampioni, le persone che ballavano.
Sul palco io e la band, dentro quel fragile equilibrio che si crea quando tutto funziona: il groove giusto, le voci a posto, la musica che scorre.
E poi — come spesso accade — arriva lei.
Una signora elegante, ben vestita, si fa largo tra la gente e, mentre canto, si avvicina al palco.
Vuole dire qualcosa.
Lo capisco dal gesto deciso della mano, dal labiale deciso che prova a sovrastare la musica.
“Raffaella Carrà!”
Per un attimo penso di aver capito male.
Invece no: vuole Raffaella Carrà. Subito.
Mentre suoniamo tutt’altro.
E quando, con il massimo della gentilezza, Matteo — il bassista — le spiega che la Carrà non fa parte del nostro repertorio, risponde risentita:
“E allora improvvisatela! Accennatela almeno!”
Intorno, la piazza è piena di stranieri che ballano su brani rock e funk.
Lei insiste, si offende quasi. Come se rifiutare la sua richiesta fosse un affronto personale.
È da quella sera che continuo a pensarci.
Non tanto alla Carrà, ma al meccanismo che c’è dietro certe richieste.
A quella convinzione per cui il palco è una specie di juke-box umano, pronto a eseguire ciò che ciascuno desidera in quel momento.
Da lì (e da mille altri episodi simili) nasce questa riflessione.
Una riflessione su cosa significhi davvero ascoltare, su quanto ego ci sia — e su quanto poca cultura dell’ascolto sia rimasta.
C’è sempre quel momento.
Chi suona dal vivo lo conosce bene.
Stai lì, immerso nella musica, la gente balla, le luci fanno la loro parte.
Il tempo si piega, il palco respira.
E poi, all’improvviso, qualcuno si avvicina. Vuole dirti qualcosa. Mentre canti.
A volte succede con grazia. Ti aspettano tra un brano e l’altro, ti dicono con voce bassa “ma per caso fate anche qualcos’altro degli Oasis?” dopo aver sentito “Don’t Look Back In Anger”.
Gentilezza. Coerenza. Amore per la musica, o almeno un barlume di essa.
Ma il più delle volte no.
Il più delle volte arriva quello che, con l’urgenza di chi deve salvare la serata, ti si piazza davanti al palco. Tu stai suonando, e lui ti guarda come se avesse in mano il telecomando del mondo.
“Mi fai Hallelujah di Jeff Buckley?”
Magari hai la pista piena, la gente che balla, un ritmo che funziona. Eppure lui, nel suo universo parallelo, decide che adesso serve un pezzo lento, struggente, malinconico. E deve essere adesso.
L’ego, quel piccolo animale da palcoscenico
Mi chiedo spesso cosa muova una persona a fare una cosa del genere. Perché serve un certo coraggio, o una certa incoscienza, per mettersi tra un musicista e il suo pubblico, in quel fragile spazio dove tutto può rompersi.
Forse non è solo mancanza di educazione. Forse è qualcosa di più profondo. Il bisogno di essere visti. Di sentirsi, anche solo per un attimo, dentro la luce.
È un gesto antico, quasi infantile: “guardami”. Solo che qui, al posto del disegno attaccato al frigorifero, c’è una richiesta: “Fammi sentire la mia canzone.”
È come se il palco attirasse a sé non solo chi suona, ma anche chi, in qualche modo, vuole esserci dentro. Un piccolo corto circuito del narcisismo quotidiano.
L’illusione del “tanto è facile”
Poi c’è la variante logica del fenomeno.
“Dai, tanto è facile, basta che la accenni!”
Come se la musica fosse una specie di linguaggio universale, che basta pronunciare con un po’ di convinzione. Come se non ci fossero dietro ore di prove, arrangiamenti, armonie pensate, mani che si cercano al millimetro.
È curioso: più una persona ignora quanto lavoro ci sia dietro una canzone, più crede di poterla semplificare. È come dire a un architetto: “dai, buttami su un grattacielo, tanto due piani o venti è uguale, no?”
Ma non è snobismo, è rispetto. Per il mestiere, per il pubblico, per quella fragile architettura che si chiama scaletta e tiene in piedi la serata come una colonna vertebrale invisibile.
La difficoltà ad ascoltare ciò che non si conosce
E poi c’è un’altra cosa, più sottile. Un problema culturale, direi. Siamo diventati incapaci di ascoltare qualcosa che non conosciamo.
Viviamo dentro playlist cucite su misura, dentro bolle sonore dove nulla ci sorprende. Abbiamo le nostre venti canzoni — se va bene — e ci muoviamo tra di loro come tra stanze familiari. Riconosciamo ogni battito, ogni pausa, ogni parola.
E così, quando arriva una canzone nuova, non sappiamo dove metterla. Non possiamo anticiparla, non possiamo canticchiarla, non possiamo possederla. Non siamo in grado di capirla. E questo, per molti, genera ansia.
Ma la musica vera — quella viva, che ti passa addosso — nasce proprio lì, dove non sai cosa sta per succedere. Bisognerebbe imparare di nuovo ad ascoltare come si viaggia: con curiosità. Lasciarsi sorprendere, anche se non conosci la lingua.
È un esercizio di fiducia, e di cultura. Perché ascoltare solo ciò che conosci è come viaggiare e cercare la pasta italiana a ogni pasto: un modo per restare fermi, anche quando sei lontano.
Il paradosso delle richieste
Il paradosso è che chi chiede con più sicurezza, di solito, è quello che di musica capisce meno. Non conosce i generi, non riconosce le epoche, confonde gli anni ’70 con gli ’80, ma è convinto che tu stia sbagliando repertorio. E lo dice con la sicurezza di chi sa.
Forse anche qui c’è una lezione: più una persona ha bisogno di imporsi, più grande è l’ego che cerca di nascondere.
La richiesta diventa un piccolo palcoscenico personale, una performance dentro la performance.
“Guardate tutti, la canzone l’ho scelta io.”
Quando la richiesta è un gesto gentile
Ogni tanto, però, capita anche la grazia. Qualcuno si avvicina piano, ti lascia un foglietto:
“Se per caso sapete uno di questi pezzi, mi farebbe piacere.”
Lo dice con voce bassa, con rispetto. E magari uno di quei pezzi è davvero in scaletta. Allora lo suoni volentieri, e quel momento diventa un piccolo atto di connessione vera. La musica torna ad essere ciò che dovrebbe essere: un dialogo, non un monologo.
Non sono un jukebox
Forse dovremmo rivalutare il concetto stesso di “richiesta dal pubblico”. O si fa una serata a richieste, e lo si dichiara, con regole chiare (magari anche a pagamento, perché no?), oppure si lascia che la musica segua il suo flusso, come un fiume che sa già dove andare.
Un concerto non è un juke-box. È un fragile equilibrio tra chi suona e chi ascolta. Un patto. Un atto di fiducia reciproca.
E quel rispetto comincia dal saper restare nel pubblico, senza dover per forza salire sul palco — nemmeno per un istante.
